Intervista all’Ogliastra


Maurizio, ci racconti il tuo percorso: dalla Sardegna all’Irlanda, passando per l’economia politica e la comunicazione. Cosa ti ha portato a Dublino e come è nata l’idea di Radio Dublino?

Sono nato a Tortolì e cresciuto in Ogliastra. Dopo il Liceo Classico, ho studiato Economia a Cagliari e iniziato a lavorare nella cooperazione internazionale, prima come volontario e poi come consulente. In parallelo ho scritto per alcuni giornali e poi mi sono spostato nel campo della comunicazione e del marketing.

Nel 2007, mentre lavoravo a Milano e frequentavo un master al Politecnico, ho avuto una crisi di fiducia nel futuro in Italia. Sentivo che il merito non veniva premiato, e che il contesto sociale ed economico stava diventando sempre più sterile per chi, come me, cercava spazi di crescita. Scrissi sei città su sei foglietti — Londra, Dublino, Amsterdam, Helsinki, Barcellona, Bruxelles — e ne pescai uno a caso: uscì Dublino. In poche settimane ho fatto i bagagli e sono partito.

All’inizio evitavo gli italiani, in una sorta di ribellione silenziosa verso il Paese che mi aveva spinto a partire. Con il tempo ho riscoperto il valore delle mie radici, e nel 2013 ho fondato Radio Dublino per creare un ponte tra l’Italia e la mia nuova casa. Una radio fatta per dare voce a chi vive tra due mondi. Ho acceso il microfono senza certezze, ma con tantissima passione. E da allora non l’ho più spento.

Radio Dublino è attiva dal 2013 e si rivolge alla comunità italiana in Irlanda. Quali sono stati gli obiettivi iniziali del progetto e come si sono evoluti nel tempo?

Radio Dublino dopo anni di osservazione e ascolto della comunità italiana in Irlanda. Mi accorgevo che mancava uno spazio di racconto, di scambio, un punto di riferimento per chi, come me, cercava senso nell’esperienza migratoria. Quando è nata Radio Dublino, volevo creare un canale diretto per informare e intrattenere la comunità italiana residente in Irlanda. Inizialmente, quindi, la radio offriva musica, notizie, rubriche leggere. Ma ben presto mi sono reso conto che c’era un potenziale più grande. Radio Dublino poteva essere uno spazio di riflessione e di scambio culturale. Molti italiani che vivono in Irlanda da anni, infatti, conoscono poco il Paese che li ospita. E molti irlandesi erano curiosi di sapere di più sulla nostra lingua, sulle nostre tradizioni, sulla nostra musica. Così, quello che era nato come uno spazio per “parlarsi tra connazionali” è diventato uno strumento di dialogo interculturale.

Oggi parliamo di migrazione, arte, musica, letteratura, economia, diritti, intelligenza artificiale, società. Siamo molto attivi sui social, produciamo eventi dal vivo e contenuti audio-video. È un progetto in continua evoluzione, come la comunità che racconta. È una crescita naturale, guidata dalla comunità stessa. Radio Dublino è diventata una sorta di laboratorio permanente.

Nel 2015 sei stato nominato “Language Ambassador of the Year” dalla Commissione Europea. Qual è il significato di questo riconoscimento per te e per la missione di Radio Dublino?

Ricevere quel riconoscimento è stata una grande sorpresa, ma anche una conferma. Una conferma che si può costruire qualcosa di importante anche partendo da poco, anche senza grandi mezzi, se ci si mette passione, impegno e visione. Radio Dublino è una realtà “artigianale”, fatta di gratuità e volontariato. Oltre cinquanta persone hanno contribuito al progetto in questi anni, tutte spinte dal desiderio di fare qualcosa per gli altri. Quella nomina non è stata solo mia, ma di tutta una comunità che ha creduto nel valore della comunicazione come atto di costruzione collettiva. È stata la prova che anche una piccola radio può avere un impatto a livello europeo.

Ricevere quel premio ha significato che il nostro lavoro veniva visto, ascoltato, riconosciuto e ha dato forza e legittimità a ciò che stavamo facendo: promuovere la lingua e la cultura italiana all’estero, anche attraverso strumenti non convenzionali. È stata la prova che anche una piccola idea, se coltivata con dedizione, può avere un grande impatto.

Nel 2017 hai fondato l’Italian Fusion Festival, che celebra la cultura italiana in Irlanda attraverso musica, arte e gastronomia. Come è nato questo evento e quale impatto ha avuto sulla comunità locale?

L’Italian Fusion Festival è nato da un’idea semplice ma potente: celebrare l’incontro tra la cultura italiana e quella irlandese. Inizialmente il festival era nato per promuovere i migliori musicisti italiani e irlandesi che erano stati ospiti nei nostri studi radio, ma poi il festival è cresciuto, includendo arte visiva, poesia, design, cinema, gastronomia.Tutti linguaggi universali che mettono in connessione le persone anche quando non parlano la stessa lingua.

Il festival è cresciuto anno dopo anno ed è diventato un appuntamento molto atteso, sia dalla comunità italiana che da tanti irlandesi. Ha dato visibilità ad artisti che vivono e creano in Irlanda, ha fatto nascere collaborazioni e connessioni umane. La cultura è uno strumento potente: unisce, emoziona, apre varchi. Il festival è nato con questa idea: non solo “esportare” l’Italia, ma farla dialogare con l’Irlanda e generare connessioni umane. La cultura è il linguaggio più efficace per creare ponti. E questo festival, nel suo piccolo, è un ponte vivo tra due mondi.

Radio Dublino ha ampliato la sua offerta includendo video podcast, articoli e reportage. Come utilizzi questi strumenti per promuovere l’integrazione e il dialogo interculturale?

Viviamo in un tempo in cui le storie vanno raccontate in molti modi. Per questo, accanto alla radio, abbiamo aggiunto video podcast, articoli, reportage, eventi dal vivo e livestreaming. Non facciamo solo intrattenimento: vogliamo creare empatia, comprensione, scambio. Integrazione per me non è assimilazione, ma conoscenza reciproca. Usando questi strumenti raccontiamo esperienze vere, difficoltà, successi, sogni.

Due anni fa, ho trasformato il programma radio in un video podcast di un’ora, pubblicato anche su Spotify, YouTube, TikTok, Apple Podcasts, Instagram e le principali piattaforme online e i maggiori social media. Così possiamo approfondire meglio i temi, ascoltare le storie degli ospiti con più calma, raggiungere un pubblico più giovane e internazionale. Questo formato ci permette di entrare nel vivo delle storie, senza i limiti della diretta radiofonica. È un modo per raccontare storie vere con il tempo e l’attenzione che meritano.

Del resto, Radio Dublino mi ha regalato anche incontri molto speciali. È stato proprio dietro a un microfono che ho conosciuto mia moglie: era ospite della seconda puntata nel 2013. L’avevo invitata perché, pur essendo italiana, insegnava (e insegna ancora) inglese e spagnolo alle scuole superiori qui a Dublino. Da quell’intervista è nata una storia che, fortunatamente, non si è più interrotta. Anche questo, in fondo, è integrazione culturale.

Hai scritto il libro “Economie senza denaro” e sei stato un pioniere in Italia nella divulgazione dei sistemi di scambio non monetario. Come si collega questo interesse con il tuo impegno sociale e culturale?

Quando scrissi quel libro, stavo concludendo i miei studi in economia e stavo valutando una carriera nella cooperazione internazionale. Ma non volevo diventare un burocrate della solidarietà. Volevo capire se fosse possibile immaginare modelli economici alternativi basati su relazioni, fiducia, scambio.

Studiai esperienze da tutto il mondo: sistemi di baratto, banche del tempo, monete locali. Idee che sembravano utopie, ma che in molte comunità funzionavano davvero. L’idea era (ed è) semplice: l’economia deve servire le persone, non viceversa.

Offrire senza pretendere nulla in cambio è un valore che ho respirato fin da piccolo in Ogliastra, dove la cultura del dono e il senso di comunità erano profondamente radicati. Nella mia famiglia, in particolare, il volontariato e la generosità sono sempre stati vissuti come gesti naturali e necessari.

La tua esperienza di vita e lavoro all’estero ti ha permesso di osservare l’Italia da una prospettiva diversa. Quali riflessioni hai maturato sulla nostra identità nazionale e sul ruolo della comunità italiana all’estero?

Vivere all’estero ti cambia lo sguardo, perché ti permette di confrontare ogni giorno il Paese da cui vieni con quello in cui vivi. Ti rendi conto delle bellezze del tuo Paese, ma anche delle sue contraddizioni. Ti accorgi di quanto potenziale abbiamo e di quanto spesso venga sprecato. Negli anni ho visto l’Italia perdere terreno, soprattutto per le giovani generazioni: la mancanza di opportunità, l’assenza del merito, il clientelismo, lo scoraggiamento. Nel 2014 scrissi un articolo diventato poi virale: “La generazione perduta dei nati in Italia negli anni ‘70 e ‘80”. Parlava proprio di questo: di come molti della mia generazione abbiano dovuto scegliere tra l’adeguarsi o l’andarsene dall’Italia. E oggi la situazione non è molto cambiata. Anzi è peggiorata. In Irlanda incontro tanti giovani italiani talentuosi, ma partiti non per scelta, ma per necessità.

Dal 2021 curo la sezione sull’Irlanda del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, la principale pubblicazione dedicata agli expat e agli emigrati italiani nel mondo. Questo mi ha permesso di studiare da vicino la realtà degli italiani in Irlanda: una comunità variegata, fatta sia di eccellenze che di fragilità, spesso poco raccontate. Nel rapporto di quest’anno per esempio è emerso come i costi altissimi degli affitti, che hanno superato i 2000 euro, rendano la vita in Irlanda non sempre semplice. C’è chi si integra completamente (negli ultimi anni, benchè non c’e’ ne sia la necessita’ tecnica, moltissimi italiani hanno richiesto la cittadinanza irlandese) e chi vive in una bolla fatta solo di italiani. C’e’ chi, della Generazione Erasmus si sente europeo e vive serenamente la sua identità multipla e chi vive l’emigrazione come una ferita. Il nostro compito è raccontare tutto questo, senza semplificazioni, senza mitizzare né denigrare. Solo così possiamo costruire una narrazione vera, utile a chi parte e a chi resta.

Come riesci a conciliare le tue diverse passioni e attività, dalla radio al marketing, dalla scrittura al volontariato?

Con fatica, certo. Ma anche con molta passione. Radio, Festival e altre attività che svolgo a Dublino sono passioni non rettribuite. Le bollette le pago gestendo il marketing di una grossa società di consulenza internazionale. Per me non sono mondi in conflitto, ma complementari. Sono modi diversi di gestire comunicazione e relazioni. Il mio lavoro principale è nel marketing: analisi, strategia, numeri.

La radio, invece, è il mio spazio creativo. La scrittura mi serve per capire meglio e mettere ordine nei pensieri. Il volontariato mi ricorda da dove vengo, e perché faccio tutto questo. Ogni ambito mi insegna qualcosa: il marketing mi dà metodo, la radio creatività, la scrittura profondità, il volontariato senso. Ogni attività mi arricchisce e nutre l’altra. La chiave è la curiosità: se perdi quella, tutto diventa routine. E la routine è il nemico della creatività.

Quali sono i tuoi progetti futuri per Radio Dublino e per l’Italian Fusion Festival? Hai in mente nuove iniziative per rafforzare i legami tra Italia e Irlanda?

Per Radio Dublino voglio puntare di più sull’approfondimento, sulla qualità dei contenuti, sulla multimedialità e sulla partecipazione dei giovani. Siamo sommersi da stimoli e contenuti, ma abbiamo sempre meno tempo per fermarci a riflettere. Vorrei che la radio diventasse uno spazio di respiro, di riflessione vera.

Per il festival, l’obiettivo è crescere mantenendo l’identità. Dopo sette edizioni, molti artisti italiani resident in Irlanda sono già stati coinvolti. Ora vorrei portare a Dublino artisti italiani che abbiano qualcosa da dire, che sappiano costruire ponti, non solo spettacolo. La parola chiave, per me, resta “contaminazione culturale”.

Qual è la lezione più importante che hai imparato vivendo tra due culture?

Che l’identità non è qualcosa di rigido o definitivo, ma un processo in divenire. Non è una radice che ti lega a terra, ma un ponte che puoi costruire giorno dopo giorno. Vivere tra due culture ti insegna a ti insegna a vedere le cose da più prospettive, a metterti costantemente in discussione, ad accogliere l’altro con rispetto, a ridimensionare le certezze. È un esercizio continuo di empatia. Ho capito che non esiste un solo modo giusto di stare al mondo. L’identità non è una bandiera da sventolare, ma una grammatica che impari strada facendo. E vivere tra due culture ti obbliga a riscrivere spesso il tuo vocabolario, a rinunciare alle etichette, a diventare fluente nell’ambiguità. Essere italiani all’estero non significa perdere qualcosa, ma poter moltiplicare il proprio sguardo sul mondo.

Vivere tra due culture ti cambia profondamente. Stando lontano dal proprio paese si possono capire molte cose, che da uno sguardo ravvicinato non scorgi. Guardare l’Italia da fuori, attraverso il confronto quotidiano con un’altra cultura, con altri ritmi, priorità e modi di relazionarsi, permette di riconoscere con maggiore lucidità sia ciò che abbiamo di prezioso, sia ciò che pensavamo immutabile e invece non lo è affatto. In Irlanda, per esempio, ho imparato ad apprezzare la bellezza diffusa anche nei luoghi più semplici, l’arte del convivere, del mangiare insieme e la creatività spontanea che in Italia è ancora molto presente. Ma ho anche visto chiaramente quanto certi nostri problemi, dall’individualismo esasperato, alla rassegnazione cronica, ala sfiducia sistematica nelle istituzioni, al clientelismo, alla burocrazia paralizzante, alla lentezza nel valorizzare davvero i giovani e le competenze, alla diffidenza verso il cambiamento non siano frutti del destino, ma scelte collettive, abitudini che altre società affrontano diversamente.

Hai parlato del valore delle piccole azioni. Cosa intendi esattamente?

Credo che siano proprio le piccole azioni a cambiare il mondo. Un progetto nato dal basso, un’idea condivisa. È facile scrivere grandi manifesti, più difficile è rimanere fedeli ogni giorno a ciò in cui si crede. Le piccole cose, fatte con costanza e impegno, costruiscono lentamente qualcosa di duraturo. Oggi tutti possono “essere” qualcosa, o almeno dichiararlo: bastano un profilo social, una buona descrizione, qualche parola giusta. Ma fare davvero qualcosa, anche piccolo,  è molto più raro. È nel fare che si misura la serietà di un’intenzione, la coerenza di una visione, la volontà di costruire. Il “fare” è scomodo, richiede tempo, pazienza, fallimenti, coraggio. È un esercizio di responsabilità, perché non si può bluffare con le azioni: o fai, o non fai. E se fai, lasci una traccia concreta.

Per me la differenza è tutta lì: non mi interessa essere simpatico, brillante, visibile. Non cerco approvazione, cerco senso. Preferisco aver lasciato dietro di me un progetto, anche piccolo, ma reale. Qualcosa che abbia migliorato un contesto, dato un’opportunità a qualcuno, aperto una possibilità. E se ho imparato qualcosa vivendo all’estero, è proprio questo: le culture che funzionano non sono quelle che si raccontano meglio, ma quelle che scelgono di fare, ogni giorno, con umiltà e costanza. Anche piccole azioni. Fare, per me, è l’atto più rivoluzionario che abbiamo.

Guardando al futuro, cosa pensi sia essenziale trasmettere alle nuove generazioni?

La capacità di coltivare il dubbio e l’entusiasmo allo stesso tempo. Il dubbio come forma di intelligenza, per non accettare passivamente ciò che ci viene detto e vediamo nel mondo che ci sta attorno; l’entusiasmo come energia per costruire, creare, sognare. Le nuove generazioni hanno davanti sfide enormi, ma anche strumenti straordinari. Serve però una bussola interna, fatta di etica, spirito critico, bellezza.

Vedo sia in Italia che in Irlanda che a molte realtà associative e del volontariato sta mancando un ricambio generazionale. Le nuove generazioni mi pare vivano in una condizione difficile: iperstimolate, ma spesso prive di radici; connessi, ma raramente in contatto profondo con sé stessi o con gli altri. Vedo tanto potenziale, ma anche tanta fragilità, una difficoltà crescente nel reggere la frustrazione, nell’assumersi responsabilità, nel portare avanti qualcosa con coerenza. Quello che vorrei trasmettere è l’idea che vale la pena fallire per qualcosa in cui si crede. Che la profondità conta più della prestazione. Che la libertà richiede anche disciplina e comunità.

Infine, che messaggio vorresti condividere con i lettori del nostro giornale, in particolare con i giovani che desiderano costruire un ponte tra culture diverse?

Non abbiate paura di partire. Ma nemmeno di restare. Non c’è una sola strada giusta. La vera scelta è tra vivere in superficie o in profondità. Cercate esperienze che vi mettano in discussione, che vi spingano a mettervi in gioco.

Non serve trasferirsi in una capitale europea. Anche nei piccoli paesi dell’Ogliastra si possono costruire ponti tra culture. Costruire un ponte tra culture diverse non richiede superpoteri. A volte basta un gesto: un’ora di volontariato, un evento con ospiti di altri Paesi, una cena con sapori nuovi. L’importante è avere il coraggio di essere curiosi, gentili e aperti. Il cambiamento nasce sempre da un’azione semplice e sincera.