Dream Group a Tribeca
Incontro Grace, una architetta italo-americana che viaggia tra New York e Montevideo con una gran voglia di sentire parlare italiano, mi invita nella sua casa di Tribeca per partecipare al suo settimanale “dream group”. Nella casa ci sono già alcune persone ad aspettarla. Saluto e resto in attesa. Lei mette dieci cuscini nella sala dove ci sono i libri, il computer e il caminetto; porta la frutta, il tè e cominciamo. Si segue una procedura messa a punto da uno studioso svedese. Qualcuno racconta un sogno che si è appuntato al risveglio: poche righe divise in paragrafi, che detta agli altri. Dopo, si possono fare domande, non personali, per chiarire il quadro. Poi, il sognatore spiega il contesto, raccontando che cosa gli era accaduto il giorno prima del sogno, quali erano le priorità della sua vita in quel momento. Segue il playback: qualcuno rilegge il testo al sognatore, facendogli rivivere il sogno. Rivedendolo, quello aggiunge particolari che, prima, gli erano sfuggiti. Infine l’orchestrazione, in cui chi vuole mette insieme sogno e contesto e cerca di decifrare il codice nascosto nella rappresentazione. Grace conduce la cosa come fosse una detective story, lei è il capitano della squadra investigativa, il sognatore è quello che cerca di nascondere la prova d’una situazione, abbiamo due ore di tempo per smascherarlo. Molti sono affascinati dalla cosa, altri si spaventano. Il gruppo si riunisce ogni mercoledì e sono dieci, ma, in media, quattro cambiano ogni volta. Specie dopo essere stati messi a nudo nel ruolo di sognatori, molti partecipanti spariscono. Restano quelli per cui la vita è possibilità e quelli che vengono per rimorchiare.
C’erano pochi sopravvissuti del mercoledì precedente: Paul, un divertente importatore di vini, Anna che dipinge angeli e Jing Li, la studiosa di traumi generazionali. Più Grace. Avevano riempito i vuoti invitando nuove persone. C’ero io, una ragazza che faceva un Ph.D alla New York University, il proprietario di un negozio di dischi usati sull’East Village, una Strategic Partner Development Manager di una dotcom famosa e altre tizi non meglio identificati. Anna aveva portato Denise, la donna che vende frullati di frutta nel negozietto all’angolo del suo isolato, a “Hell’s Kitchen”. Denise aveva quarant’anni, era brasiliana, bella in un modo insolito, quieto, come se, davvero, non se ne fosse accorta mai. Sedemmo in circolo. Siccome i novizi non conoscono la procedura, non tocca mai a loro raccontare il sogno. Lo fece Anna. Ricordo che riguardava una casa al mare e un postino che consegnava solo lettere tornate al mittente. Più altri particolari che Anna non vorrebbe rivelassi. Ne discutemmo a lungo e animatamente. Tranne Denise. Lei non disse una parola, mai. Grace non sollecita, in questi casi, ma la guardò più volte con un invito negli occhi: invano. Nell’ingresso, al momento di andarsene, Denise disse: “Scusate, ma non fa per me. E’ una di quelle cose only in New York, che fate voi un po’ artisti, un po’ nevrotici, un pó così, io non sogno mai, scusate, arrivederci”.
“Addio, immagino”, disse Grace.
Una settimana più tardi, il mercoledì mattina, Grace mi ha chiamato: “Sto cercando qualcuno da portare stasera. Ti interessa?”.
“Non so?”.
“Lascia stare, viene comunque Denise”.
“Only in New York Denise?”.
“Lei. Mi ha telefonato un’ora fa: ha fatto un sogno”.
“Io Non Sogno Mai Denise ha fatto un sogno?”.
“Sì, qualcosa che riguarda uno scarafaggio”.
“Ma che meraviglia! Vengo allora! Stasera ci divertiamo un sacco!”.
“Non essere cinico! Non sai mai che cosa viene fuori, ci vediamo alle sette”.
Alle sette, Denise lesse questa trascrizione del sogno, che riporto dal mio taccuino, come ci venne dettata:
“Sono nella mia cucina. Sul muro accanto al frigorifero vedo uno scarafaggio che cammina. Si dirige verso il retro del frigorifero e sta per scomparire là dietro. Allora decido di ucciderlo: prendo una scarpa e l’aspetto dall’altro lato. Sono un po’ spaventata, perché gli scarafaggi mi fanno senso, ma aspetto, decisa a schiacciarlo, con la scarpa saldamente in mano. La stringo forte. Attendo. E’ una lunga attesa, più di quanto prevedessi. Finalmente, lo scarafaggio risbuca. Solo che qualcosa è cambiato: non è più nero, è bianco. Sono stupefatta: come può uno scarafaggio essere bianco? Mi avvicino per guardare meglio e mi accorgo che in realtà, è trasparente e sotto la superficie ci sono tutti i colori dell’arcobaleno, che danzano insieme e io li guardo e in quel momento vedo che non è neppure uno scarafaggio, ma un pesciolino, e che il muro è un oceano, bellissimo, il più bel blu che abbia visto. A quel punto cado in ginocchio e piango, commossa”.
Facemmo qualche domanda ininfluente, non sapevamo davvero dove andare a parare. Durante la fase di “contestualizzazione” lei disse che aveva trascorso, prima del sogno, una giornata assolutamente normale: solita clientela, affari un po’ a rilento, era una fase così, niente di particolare nella sua vita. Jing Li le rilesse il sogno, senza particolari effetti, se non che, alla frase “e piango, commossa”, Denise sembrò commuoversi davvero.
Seguì un breve silenzio, poi la voce di Grace: “La scorsa settimana tacevi, ti sei spaventata perché qui c’era chi esponeva così apertamente la propria vita, le proprie sensazioni?”.
Denise annuiva.
“Tu hai paura di farlo, pensi che sia una cosa sporca, scura, ma sai che, in realtà, dentro sei pura, hai un mondo di sensazioni che vorresti condividere”.
Tutti noi vedevamo lo scarafaggio uscire dal retro del frigorifero, bianco, poi colorato, poi pesciolino nel mare.
“Tu avevi un particolare rapporto con l’oceano, con il blu?”.
Denise chinò il capo per non mostrare il volto.
Non so se Grace segue un’ispirazione, se va a caso, se chiude gli occhi e scorge un filo che a noi resta invisibile: “Perché, vedi, mi vien da pensare che blu è il colore delle uniformi dei poliziotti”.
Denise alzò il volto: era rigato di lacrime.
Disse: “Si chiamava Donnie, lavorava nel distretto a due blocchi dal mio negozio, veniva sempre a prendere il frullato da me. Ogni giorno. Poi abbiamo cominciato a uscire insieme. Lui era sposato, separato, non ancora divorziato. Diceva che lo sarebbe stato presto, ma non lo sai mai. Mi aveva proposto un weekend insieme, sarebbe stata la prima volta: a Long Island, aveva preso una stanza con vista sull’oceano. All’ultimo momento ho avuto paura e non sono andata. Mi sono sentita sporca: per me non era ancora un uomo libero. Non mi sono fatta trovare, sabato e domenica. Il lunedì lui non è venuto per il frullato. Ho aspettato tanto, invano. Il lunedì era il 10 settembre. Il giorno dopo Donnie è morto dentro le torri”.
Cadde in ginocchio e pianse, commossa.
La guardammo, nessuno parlò. Qualcuno allungò una mano e la sfiorò. Jing Li era un po’ delusa: sperava che Denise fosse gay. Anna cercava un segno in tutto questo, lei vive così: solleva gli occhi e vede un ragazzo che ha scritto sulla maglietta Just do it e fa quel che era incerta se fare, il che di solito implica voli transcontinentali. Grace era stanca, come un detective che ha risolto il caso, girato il tappeto dalla parte in cui tutti quei fili e nodi diventano un comprensibile disegno. Io restavo nel mio angolo; ho smesso di seguire le coincidenze, di aspettare una fede che mi faccia credere a un disegno che non vedo, non conta se c’è o non c’è, poichè ho imparato ad accettare una verità, Denise: l’amore ci salva, anche quando ci perde.