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La Global Sumud Flotilla e il suo carattere nonviolento


Perché questo articolo

Negli ultimi mesi ho notato che attorno alla Global Sumud Flotilla c’è molta confusione: si parla del suo viaggio, delle tensioni politiche e delle reazioni internazionali, ma quasi mai si comprende davvero la natura nonviolenta dell’azione.

Molti commentatori non conoscono cosa significhi azione diretta nonviolenta, né quali principi la fondino né quale storia la sostenga. Per questo motivo ho deciso di scrivere questo articolo: per provare a chiarire il senso profondo dell’iniziativa, spiegare cosa sia l’azione diretta nonviolenta e mostrare come la Global Sumud Flotilla ne rappresenti oggi una delle espressioni più coerenti e simboliche.

Cos’è la Global Sumud Flotilla

La Global Sumud Flotilla (GSF) è un’iniziativa civile e internazionale lanciata nel febbraio 2025 per portare aiuti umanitari a Gaza e sfidare in modo nonviolento il blocco marittimo imposto da Israele dal 2007. Il termine sumud (صمود) – che in arabo significa “fermezza”, “resistenza”, “perseveranza” – esprime la filosofia stessa dell’iniziativa: rimanere saldi nella difesa della dignità umana attraverso mezzi pacifici.

Promossa da reti come la Freedom Flotilla Coalition, il Global Movement to Gaza e organizzazioni della società civile di oltre 30 Paesi, la GSF ha riunito più di 20 imbarcazioni e circa 300 volontari – tra cui medici, parlamentari, giornalisti, attivisti, religiosi e operatori umanitari – in un’unica azione diretta di solidarietà globale. Come documentano le fonti ufficiali, la flotta intendeva aprire un “corridoio umanitario dal basso” verso la Striscia di Gaza, portando forniture mediche, viveri, strumenti di sopravvivenza e soprattutto testimonianza internazionale.

Il contesto: il blocco navale e la crisi umanitaria

Dal 2007, Israele mantiene un blocco marittimo su Gaza che, secondo le autorità israeliane, ha lo scopo di impedire l’ingresso di armi e materiali militari a gruppi come Hamas. Tuttavia, secondo numerose organizzazioni internazionali – tra cui l’ONU, Amnesty International e Human Rights Watch – questo blocco costituisce una forma di punizione collettiva che colpisce principalmente la popolazione civile, impedendo l’accesso ad aiuti essenziali.

Secondo i dati dell’OCHA (UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs), oltre 2 milioni di persone vivono nella Striscia di Gaza in condizioni di grave crisi umanitaria: l’80% della popolazione dipende dagli aiuti internazionali, il sistema sanitario è al collasso, e l’accesso a cibo, acqua potabile e medicinali è severamente limitato. Questi numeri rendono evidente perché iniziative come la GSF, pur controverse dal punto di vista politico, rispondano a un’urgenza morale e umanitaria concreta.

L’intercettazione della flotta

Durante la traversata verso Gaza, la flotta è stata più volte fermata o intercettata da unità navali israeliane nelle acque internazionali. Le organizzazioni promotrici e varie ONG internazionali – tra cui Amnesty International, FIDH (Fédération internationale pour les droits humains), OMCT (World Organisation Against Torture), Front Line Defenders e Pax Christi – hanno denunciato tali blocchi come violazioni del diritto internazionale marittimo, sottolineando la natura interamente civile, pacifica e umanitaria della missione.

La GSF non è un atto di ostilità: è un atto di presenza morale, che tenta di rendere visibile l’ingiustizia dell’assedio di Gaza e di opporvisi attraverso i mezzi della coscienza e della solidarietà disarmata.

Che cos’è l’azione diretta nonviolenta

L’azione diretta nonviolenta è una forma di intervento collettivo che mira a trasformare una situazione di ingiustizia agendo in modo pubblico, organizzato e disarmato.

Non si limita alla protesta simbolica, ma costruisce una risposta attiva, etica e creativa all’oppressione. È “diretta” perché non delega il cambiamento ad altri – né ai governi, né alle istituzioni, né alla mera denuncia – ma lo incarna attraverso l’azione concreta; è “nonviolenta” perché rifiuta consapevolmente la logica dell’odio, della vendetta e della distruzione, anche quando subisce repressione.

I tre pilastri della nonviolenza

Secondo i principi classici della filosofia della nonviolenza – sviluppati da Mohandas K. Gandhi, Aldo Capitini, Gene Sharp e Martin Luther King Jr. – un’azione diretta nonviolenta si fonda su tre pilastri fondamentali:

  1. L’azione in prima persona: la scelta di agire responsabilmente, incarnando il cambiamento che si vuole vedere nel mondo. Non si tratta di testimoniare passivamente, ma di mettersi in gioco, spesso a rischio personale.
  2. La coerenza tra mezzi e fini: la convinzione profonda che la giustizia non possa essere raggiunta attraverso strumenti ingiusti. Non si può costruire pace con la violenza, né libertà con l’oppressione. I mezzi sono i fini in formazione.
  3. La forza simbolica: ogni gesto nonviolento parla al mondo come linguaggio morale e politico. L’azione diventa metafora vivente di un ordine possibile basato sulla dignità umana.

Gli elementi operativi dell’azione diretta nonviolenta

Sul piano operativo (vedi Nonviolenza, Azione diretta nonviolenta, Resistenza passiva, Comportamenti nonviolenti, Risoluzione dei conflitti), un’azione diretta nonviolenta efficace prevede:

  • Analisi del conflitto e chiarezza degli obiettivi: comprendere le dinamiche di potere, identificare gli interlocutori e definire scopi raggiungibili
  • Preparazione disciplinata dei partecipanti: formazione su autocontrollo, de-escalation, comunicazione nonviolenta e gestione dello stress
  • Trasparenza e pubblicità dell’azione: l’azione diretta nonviolenta non è clandestina né terroristica; si svolge alla luce del sole, davanti al mondo
  • Autocontrollo e gestione non reattiva della repressione: la capacità di non rispondere alla violenza con violenza è il cuore della nonviolenza attiva
  • Valutazione post-azione per apprendere e costruire continuità: ogni azione è un esperimento sociale da cui imparare

Esempi storici

Storicamente, ne sono esempi emblematici:

  • La Marcia del Sale di Gandhi (1930), che sfidò il monopolio coloniale britannico sul sale attraverso la produzione illegale ma nonviolenta di sale marino
  • Le campagne di Martin Luther King Jr. per i diritti civili negli Stati Uniti, dai boicottaggi degli autobus (Montgomery, 1955) alle marce per il diritto di voto (Selma, 1965)
  • I sit-in e i Freedom Rides del movimento studentesco afroamericano contro la segregazione razziale
  • La resistenza nonviolenta di Solidarność in Polonia (anni ’80), che contribuì alla caduta del regime comunista
  • I movimenti ecopacifisti europei degli anni ’80 contro le basi atomiche, come Greenham Common nel Regno Unito

Questi movimenti hanno dimostrato che la nonviolenza non è semplice pacifismo passivo, ma può essere una strategia politica organizzata, di massa e storicamente efficace.

Come la Global Sumud Flotilla incarna l’azione diretta nonviolenta

La GSF si inserisce con coerenza in questa genealogia di azioni dirette nonviolente. È un atto di disobbedienza civile che sfida una norma – il blocco navale – ritenuta ingiusta e contraria al diritto umanitario internazionale, non con armi o minacce, ma con testimonianza pubblica e volontà di cura.

1. Disobbedienza civile e legittimità morale

Come le marce gandhiane o i Freedom Riders degli anni ’60, la GSF viola consapevolmente una legge (il blocco navale imposto da Israele) per affermare una legge superiore di giustizia: il diritto all’assistenza umanitaria, sancito dalle Convenzioni di Ginevra e dal diritto internazionale.

È importante distinguere: la disobbedienza civile è illegale ma non immorale. Anzi, rivendica una legittimità morale superiore alla legalità formale. Henry David Thoreau, nel suo celebre saggio La disobbedienza civile (1849), scriveva: “Se la legge è tale da rendere voi strumento dell’ingiustizia verso un altro, allora vi dico: violate la legge”.

La legittimità dell’azione non risiede nella forza o nel consenso statale, ma nella coerenza morale: un atto che interpella la coscienza del mondo e rivendica il diritto alla vita e alla dignità dei civili di Gaza.

2. Organizzazione e formazione nonviolenta

Gli equipaggi della GSF seguono un rigoroso protocollo di preparazione nonviolenta prima della partenza:

  • Nessuna arma a bordo, nemmeno per autodifesa simbolica
  • Nessuna difesa attiva in caso di abbordaggio: resistenza passiva e cooperazione limitata
  • Totale trasparenza nelle comunicazioni con autorità e media
  • Disciplina collettiva sotto stress e pressione psicologica

Ogni partecipante riceve formazione specifica su de-escalation, autocontrollo emotivo, mediazione e comunicazione non ostile. Vengono simulati scenari di intercettazione, interrogatorio e pressione fisica o psicologica, per preparare i volontari a mantenere la calma e la coerenza anche in condizioni estreme.

Ogni barca diventa così una comunità di pace in movimento, che traduce nella pratica quotidiana i principi della pace positiva: cooperazione, solidarietà, fiducia reciproca e cura per l’altro.

3. Il mare come spazio simbolico di liberazione

Il mare è da sempre il simbolo universale della libertà, dello spazio aperto, dell’orizzonte possibile. Attraversarlo senza armi, solo con viveri e medicinali, significa riconquistare simbolicamente lo spazio del diritto e della dignità umana negata.

Come Gandhi marciò per il sale – elemento vitale negato dal dominio coloniale – così la GSF naviga per l’acqua e per la vita, opponendo alla chiusura dell’assedio la forza morale della presenza disarmata. Il mare diventa metafora della resistenza: un elemento che non può essere recintato, una via che non può essere completamente bloccata.

4. Una tradizione aggiornata alla contemporaneità

Dalle Freedom Flotillas del 2010 – in particolare quella del Mavi Marmara, che portò alla morte di 10 attivisti turchi durante l’abbordaggio israeliano – alla Global Sumud Flotilla del 2025, assistiamo a un’evoluzione della “tecnologia morale” della nonviolenza:

  • Azioni coordinate a livello globale: partecipanti da decine di Paesi, reti transnazionali di solidarietà
  • Uso strategico della comunicazione digitale per la trasparenza in tempo reale e la protezione degli attivisti
  • Partecipazione interreligiosa e interculturale: cristiani, musulmani, ebrei, laici uniti da un unico imperativo etico
  • Attenzione mediatica come arma simbolica: ogni intercettazione, ogni arresto diventano occasioni per mostrare al mondo la realtà dell’assedio

Il termine sumud è il corrispettivo arabo e contemporaneo del satyagraha gandhiano: la “forza della verità” che resiste con dignità, pazienza e amore anche di fronte alla repressione. È la fermezza senza rigidità, la resistenza senza odio.

La forza dell’azione e le critiche pretestuose

Numerosi organismi autorevoli hanno riconosciuto il carattere pacifico, civile e umanitario della missione:

  • Amnesty International ha chiesto il rilascio immediato degli attivisti arrestati e ha definito il blocco della flotta una violazione del diritto alla libertà di espressione e movimento
  • FIDH e OMCT hanno denunciato le intercettazioni come contrarie al diritto internazionale marittimo
  • Front Line Defenders ha espresso preoccupazione per la sicurezza dei difensori dei diritti umani a bordo
  • Pax Christi International ha ribadito il carattere nonviolento e religioso di molti partecipanti
  • Esperti indipendenti delle Nazioni Unite hanno chiesto protezione per gli attivisti e hanno criticato l’uso della forza contro una missione civile

Alcuni critici, soprattutto in ambienti governativi e mediatici filo-israeliani, hanno definito la GSF una “provocazione politica” o un tentativo di “delegittimare Israele”. Ma si tratta di critiche pretestuose e infondate:

  1. La missione è nonviolenta per statuto e per pratica
  2. È trasparente negli intenti e nelle modalità operative
  3. È animata da un unico scopo dichiarato: portare aiuti umanitari ai civili intrappolati nell’assedio
  4. Non nega il diritto di Israele alla sicurezza, ma rivendica il diritto dei civili palestinesi alla sopravvivenza e alla dignità

Le critiche più pretestuose contro la Global Sumud Flotilla sono quelle che cercano di delegittimarla più che di analizzarne la sostanza. Le più frequenti includono l’accusa generica di legami con Hamas — mai supportata da prove verificabili —, la riduzione dell’iniziativa a “stunt mediatico” o “operazione di propaganda” e la svalutazione del suo impatto umanitario perché il carico di aiuti sarebbe “troppo piccolo”. Tali critiche ignorano che la flottiglia è concepita come atto di disobbedienza civile simbolica e che la sua efficacia non si misura solo in tonnellate di aiuti, ma nella pressione politica e nella denuncia del blocco su Gaza. Altre obiezioni, come “mette in pericolo i volontari” o “dovrebbero usare solo canali ufficiali”, risultano pretestuose perché spostano la responsabilità del rischio da chi impone il blocco a chi tenta di contestarlo pacificamente.

In sintesi, molte delle critiche rivolte alla Flotilla non si fondano su analisi fattuali o giuridiche solide, ma su narrazioni volte a screditarne la legittimità morale e politica. Definire “provocazione” un atto di solidarietà disarmata significa confondere la causa con l’effetto: non è la flotta a creare tensione, ma l’assedio stesso. La GSF non provoca il conflitto: lo rende visibile.

Errori, limiti e apprendimenti

La GSF, come ogni azione umana complessa, non è priva di difetti o aree di miglioramento. Riconoscerli è parte integrante della pratica nonviolenta, che è un processo di apprendimento continuo:

Coordinamento operativo

Flotte multilingue e multiculturali, con partecipanti provenienti da contesti politici e religiosi diversi, richiedono protocolli più rigidi di comunicazione interna, sicurezza e processo decisionale. Alcune divergenze tattiche durante l’azione hanno mostrato che serve maggiore chiarezza su chi decide cosa e quando, specialmente in situazioni di emergenza.

Gestione del racconto mediatico

Serve maggiore cura strategica nel contrastare le narrative distorsive diffuse da alcuni media mainstream e nel comunicare efficacemente la logica nonviolenta dell’azione a un pubblico non specializzato. Troppo spesso il messaggio “portare aiuti” viene oscurato dal frame “attivisti vs. Israele”, perdendo di vista i civili di Gaza.

Alleanze istituzionali

Un dialogo più stretto e strutturato con enti religiosi, diplomatici e organizzazioni internazionali rafforzerebbe la protezione legale e politica dei partecipanti. La GSF potrebbe beneficiare di un maggiore sostegno da parte di governi democratici e istituzioni multilaterali.

Sostenibilità e continuità

Azioni così complesse richiedono risorse economiche, logistiche e umane enormi. È necessario costruire meccanismi di sostenibilità a lungo termine per non ridurre la nonviolenza a gesti episodici, ma trasformarla in strategia politica duratura.

Il problema del velletarismo

Una critica più sostanziale alla GSF riguarda la tensione tra dimensione simbolica e obiettivi concreti dichiarati. L’azione diretta nonviolenta, nella sua concezione classica (da Gandhi a Sharp), nasce per raggiungere un obiettivo specifico e misurabile: far cadere una legge ingiusta, ottenere un diritto negato, modificare una politica. La Marcia del Sale aveva l’obiettivo di abolire la tassa sul sale; le campagne di King miravano a ottenere diritti civili legislativi; i sit-in volevano desegregare luoghi pubblici. La GSF dichiarava due obiettivi operativi: creare pressione per corridoi umanitari permanenti e contribuire a far cessare il blocco di Gaza. Entrambi gli obiettivi erano, nella pratica, irraggiungibili per un’iniziativa della società civile priva di potere politico o militare reale. Il blocco navale israeliano è sostenuto da una strategia militare di lungo periodo e da equilibri geopolitici regionali che una flotta civile non può scalfire materialmente.

Questo solleva un interrogativo cruciale: quando la dimensione simbolica diventa l’unico risultato possibile, l’azione diretta nonviolenta rischia di trasformarsi in testimonianza morale senza capacità trasformativa? Il rischio del velletarismo – cioè di un attivismo che si accontenta della purezza dell’intento senza interrogarsi sull’efficacia strategica – è reale. Se l’obiettivo dichiarato era aprire un corridoio umanitario e quello non è stato raggiunto, dobbiamo chiederci: è sufficiente “rendere visibile l’ingiustizia”?

Apprendimento necessario: l’azione diretta nonviolenta deve mantenere un ancoraggio strategico chiaro. Per la GSF, il metro di giudizio non è la distanza coperta o gli aiuti consegnati, ma il cambiamento culturale e morale provocato; obiettivi simbolici e obiettivi pratici devono essere distinti in fase di pianificazione. Se l’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica, questo va dichiarato esplicitamente e vanno definiti indicatori di successo adeguati (copertura mediatica, mobilitazione successiva, pressione diplomatica generata). Se l’obiettivo è materiale (far entrare aiuti, aprire un corridoio), serve un’analisi realistica della teoria del cambiamento e delle leve di pressione disponibili. Senza questa chiarezza, si rischia di costruire azioni bellissime e moralmente ineccepibili, ma politicamente inefficaci – testimonianze che confortano chi le compie più di quanto disturbino chi detiene il potere.

Tuttavia, questi limiti non ne cancellano il valore morale e politico, ma indicano che la nonviolenza è una pratica viva, in costante perfezionamento, non un dogma rigido.

Il dramma di Gaza e la risposta della coscienza civile

Dietro la GSF c’è il dramma quotidiano di Gaza: fame, assedio, distruzione sistematica delle infrastrutture civili, privazione della dignità. Oltre 2 milioni di persone – metà delle quali bambini – vivono in una delle aree più densamente popolate al mondo, con accesso limitato a cibo, acqua, elettricità e cure mediche.

Quando i governi tacciono, si paralizzano o si rendono complici per calcolo geopolitico, la società civile globale si assume il compito morale di agire. La GSF non è un gesto velleitario o romantico, ma un atto di resistenza umanitaria che può salvare vite e, soprattutto, difendere il principio stesso di umanità: l’idea che ogni vita umana ha valore, indipendentemente dalla nazionalità o dal potere politico.

Quando le istituzioni restano immobili, la società civile diventa coscienza in movimento.

La GSF è una risposta umana e globale al dolore di chi non ha voce: una resistenza etica, non ideologica. Come ricordava Aldo Capitini, filosofo italiano della nonviolenza: “La nonviolenza è apertura all’altro, è presenza alla sofferenza del mondo”. La GSF incarna questa presenza: fragile, esposta, ma potentissima nel suo significato morale.

Il mare della coscienza

La Global Sumud Flotilla non misura la sua vittoria in chilometri percorsi o tonnellate di aiuti consegnati, ma nel movimento di coscienze che suscita. Ha mostrato che è possibile agire senza odiare, disobbedire senza violare la dignità altrui, resistere senza distruggere.

In un mondo che confonde sistematicamente il potere con la violenza e la forza con la brutalità, la GSF ricorda che la forza vera nasce dalla verità e dalla compassione, non dalle armi o dalla coercizione.

Anche se fermata fisicamente, la GSF ha già vinto sul piano simbolico e morale:

  • Ha reso visibile un’ingiustizia che molti preferiscono ignorare
  • Ha mostrato che si può agire senza odiare, anche contro chi ci opprime
  • Ha ricordato al mondo che la pace è una scelta attiva, non un’assenza passiva di guerra
  • Ha costruito reti di solidarietà transnazionali che continueranno a operare

Nell’epoca del cinismo geopolitico e del realismo disincantato, la GSF ci insegna che la nonviolenza è ancora la più alta forma di realismo: l’unica strategia che costruisce futuro invece di distruggerlo.

Navigare senza armi, in nome della vita e della dignità umana, è oggi l’atto più rivoluzionario che si possa compiere.

Cosa possiamo fare

Di fronte a questa testimonianza di coraggio e coerenza morale, non possiamo restare spettatori passivi. Ecco alcune azioni concrete:

  1. Informarsi e informare: diffondere informazioni accurate sulla situazione umanitaria a Gaza e sulle iniziative di solidarietà nonviolenta
  2. Sostenere economicamente le organizzazioni che lavorano per portare aiuti umanitari e proteggere i diritti umani
  3. Fare pressione politica: scrivere ai propri rappresentanti parlamentari, chiedere posizioni chiare sulla crisi umanitaria e sul diritto all’assistenza
  4. Costruire solidarietà dal basso: organizzare eventi, incontri pubblici, iniziative culturali che mantengano alta l’attenzione
  5. Praticare la nonviolenza nella propria vita quotidiana: la coerenza inizia dai gesti piccoli, dalle relazioni personali, dalle scelte di ogni giorno

La Global Sumud Flotilla ci ricorda che la storia non la fanno solo i potenti: la fanno anche – e soprattutto – le persone comuni che scelgono di agire secondo coscienza, anche quando è scomodo, costoso o pericoloso.

Il mare della coscienza è infinito. E noi tutti possiamo navigarlo.